Pubblicato in: Il Regno, anno I, fasc. 4, pp. 8-9
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Data: 20 dicembre 1903
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«Nous avons l'air de croire que la vie est en
elle méme quelque chose de précieux. Pourtant la
nature nous enseigne que rien n'est plus meprisable.
Autrefois, on était moins barbouillé de sentimentalisme.
Chacun tenait sa propre vie pour infiniment
précieuse, mais ne professait aucun respeet
pour la vie d'autrui. On était alors plus près
de la nature: nous sommes faits pour nous manger
les uns les autres. Mais notre race faible,
énervée, hypocrite, se plait dans un cannibalisme
sournois. Tout en nous devorant nous proclamons
que la vie est sacrée, et nous n'osons plus avouer
que la vie c'est le meurtre.»
ANATOLE FRANCO.
Son certo che qualunque più esperto retore, signore dovizioso di parole e d'immagini, si darebbe per vinto quando volesse rappresentare con precisa vivezza lo stato d'animo della borghesia contemporanea. Stato d'animo ch'io non saprei meglio assomigliare che a quello di certi pulcinella di teatrucci girovaghi, teste di legno che cercan picchiare o son picchiate, che si rintanano dietro le quinte al primo subbuglio o s'avanzano spavaldamente contro ai re di cartapesta, che sono insieme, tra un lazzo e un lamento, ingenui e impudenti, vigliacchi e buffoni.
Stato d'animo singolare fatto di viltà continuata, d'inconsapevolezza meravigliosa, di fiacchezza melanconica, pur con qualche voglia angusta di piccole dominazioni e qualche velleità di riscossa. Non si sa cosa voglia questa nostra borghesia: se cedere mollemente dinanzi al cencioso usurpatore che s'avanza ricco di strida e d'audacia, se voglia mescolarsi con lui in abbracciamenti umanitari, oppure resistergli con qualche piccolo macchiavellismo o qualche grande gesta.
Ambigua, cieca, codarda, sembra dimenticare in qualche momento il periglio che la minaccia, il barbaro che batte alle sue porte, il patibolo che si sta preparando per lei, e in altri momenti ha dei sussulti di paura, degli scatti d'inusata energia e par che le splenda ancora sulla fronte abbassata qualche ricordo dell'antico coraggio e dell'antico dominio.
E in questo suo dormiveglia di moribonda, in questa sorda febbre che l'affiacchisce e la turba, essa giace ravvolta nelle coltri delle frasi, preparando colle sue stesse mani, che non sanno più fare spade, i veleni per darsi morte. Poichò essa non muore tanto per l'altrui gagliardia quanto per la propria debolezza, non è tanto un'assassinata quanto una suicida.
Da questo proviene la pochezza della sua difesa e la difficoltà dell'accrescerla. Per respingere l'ondata socialista ella dovrebbe combattere in gran parte sè stessa, che a quell'onda ha dato impulso, dovrebbe far getto, come Sardanapalo sul rogo estremo, dei suoi più cari monili.
Non solo la bassa democrazia e mediocrazia che ci governa e ci avversa é sorta dalle concezioni e dalle manifestazioni borghesi, ma la borghesia, come tutte le classi che si van disfacendo, s'è fatta metter nel sangue quello che c'era di più debilitante nelle dottrine dell'avversario. L'idee ch'erano in essa in germe fin dalle origini, hanno fruttato fuori di lei, si sono accresciute, ingrandite, intensificate, son tornate a lei, ed essa non ha saputo respingerle.
Perciò tutte le rampogne che noi andiamo facendo sulla viltà borghese non possono avere nè la loro ragione né il loro effetto se non si tenta di strappare alla classe, a cui apparteniamo e che difendiamo, quei veleni teorici, quei fantasmi ideologici che le tengon legate le braccia e impedita la voce.
Per salvare la borghesia bisogna cominciare col processarla.
Cominceremo dunque da un'idea che per la borghesia, e per tutta la democrazia che n'è nata, è fondamentale: il rispetto per la vita umana.
Tutti gli uomini hanno diritto alla vita e tutti debbon vivere: ecco l'affermazione, taciuta o proclamata, in cui borghesi e socialisti, conservatori individualisti e rivoluzionari collettivisti si trovano ogni istante d'accordo. È opinione così fondamentale ch'è alla base di ogni rivendicazione proletaria, di ogni protesta antiguerresca, di ogni esalazione sentimentale.
Nessuno osa dubitare, per un solo momento, una sola volta, che un uomo non abbia il diritto di vivere, che non abbia in sè quel carattere di cosa sacra intangibile, che si attribuisce di solito all'entità misteriose e divine. Su questo rispetto, su questa credenza, tutta la morale comune, infiorata ora da tanto raffinato filantropismo chiacchieratore, è oggi fondata.
L'odio per la guerra, il disprezzo per il duello, lo sdegno per le repressioni sanguinose, il culto delle vittime del lavoro o degli infortuni, la preoccupazione ingombrante dell'igiene pubblica, la pietà per i condannati, l'abolizione della pena di morte, il compianto per gli uccisi e per i suicidi sono tanti fatti, tanti segni di questo unico e dominante pensiero. La vita umana è sacra, il soffio di qualsiasi omiciattolo è prezioso più di un impero, la vita di qualche migliaio di bruti è più grande della potenza di una nazione. La paura del sangue è divenuta l'incubo degli uomini moderni: essi sono
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perseguitati come tante femminette, piccole Lady Macbeth in diciottesimo, dagli spettri dei morti. Ogni uomo ha il suo piccolo corpo, il suo sacco ricolmo di escrementi, il suo cranio gonfio di oscuri desideri e di parole non comprese, le sue mani veloci ad afferrare, il suo piccolo macchinismo di ossa, di adipe e di muscoli, limitato nello spazio, finito nel tempo, e lo vuol conservare a ogni costo. E per riuscire vuoi rispettare quelli degli altri, e perché non lo uccidano si guarda bene sol dal pungerli.
Così la vita effimera, la vita caduca, la vita angusta del piccolo uomo del volgo s'impone e s'oppone ai grandi interessi delle classi e delle nazioni. Il timore di togliere qualche piccola vita, fa diventare più brevi, e più basse tutte le vite di un popolo. Per salvare la vita transitoria si sbarra il cammino alla più grande vita.
A questo cieco rispetto della vita dei piccoli, dei deboli, dei minimi, degli anonimi, si oppongono due ordini di ragioni: ragioni teoriche o filosofiche e ragioni pratiche o storiche.
Il principio del diritto alla vita manca interamente di ogni giustificazione razionale. La parola diritto è un traviamento verbale del concetto concreto ch'è espresso dalla forza, dalla potenza. Ho diritto a compiere un dato atto quando posso farlo, quando ho i mezzi, la potenza adatta a tal atto. E scopriamo allora che tutti vogliono e desiderano la vita, ma che non tutti hanno la potenza, la forza, gli strumenti per vivere.
Così dal campo della prerogativa universale noi passiamo a quello dell'intenzioni personali. Il desiderio non costituisce nè un diritto nè una possibilità di compimento: molte cose si vogliono e si desiderano, che non si possono ottenere. Così c'è una sproporzione tra il volere e il possibile; tutti vogliono vivere, ma solo una parte ha le condizioni necessarie, le potenze per vivere.
Se un uomo ha la forza per mantenere e difendere la propria vita, egli, avendo la forza, ha il diritto; se un altro uomo non l'ha, egli è un debole, uno sconfitto, un impotente, cioè, per definizione, senza diritto.
Gli altri uomini, quelli che possono vivere, non sono obbligati in nessun modo ad impedire l'altrui morte. Se lo fanno è per istinto di specie (genitori) o per sentimento di simpatia (altruisti) ma non mai per obbligo. Cioè nel campo della spontaneità e del sentimento noi troviamo una trasmissione di forze tra gli uomini, ma nel campo scientifico o razionale non esiste nessuna specie di obbligo che ci forzi al dono o al rispetto della vita.
Sì dirà che molte volte la società ha interesse a che la maggior parte dei suoi membri abbian salva la vita e allora l'altruismo sentimentale diviene una forma di conservazione collettiva. Ma in questo caso si tratta dell'utile della maggioranza di una razza, cioè di una certa somma d'individui, che spinge a salvaguardare la vita degli altri, non mai del diritto personale degli individui. Alcuni concedono la loro forza ad altri perchè traggon vantaggio da questo dono e speran raccogliere dopo una somma maggiore di vita.
Così, in nessuna maniera, il diritto, il diritto astratto, razionale, universale può trovare la sua giustificazione. Il diritto alla vita è un dogma che tutti credono e che nessuno può dimostrare.
E di questo c'importerebbe veramente fino a un certo segno. Se il principio giovasse sempre, se fosse utile all'individuo e alla specie non ci occuperemmo di chiedergli il suo attestato di veracità e di razionalità. Noi sappiamo ormai che molte menzogne hanno reso la vita più grande di molte verità. Ma il rispetto della vita a tutti i costi e in tutti i casi non è neppure utile, anzi è in contrasto continuo coi più grandi fatti della vita universale dei nostri tempi.
Oggi il mondo é pieno di più vaste e operose energie che non fosse una volta. Gli uomini sono di più e vivono di più. In ogni parte della terra, in ogni paese costretto fra le montagne, in ogni città assisa sul mare, una turba instancabile lavora, si muove, pensa, si agita, medita e combatte. In ogni isola sperduta nei mari arrivano i navigli carichi di ricchezze e di uomini, in ogni montagna più superba penetra il piccone del minatore e il rombo delle macchine fumanti, in ogni città risuonano i magli, corrono i carri, si agitano e si ubriacano le moltitudini.
La ricchezza del mondo ogni giorno si fa più grande; ogni giorno il ritmo del suo gran cuore si spande da est verso ovest, da nord e da sud, rendendo l'aria più sonora, la terra più feconda, l'uomo più febbrile.
Ora tutta questa vita, questa spesa quotidiana di energia, questa battaglia sempiterna contro le cose e gli strumenti, questa nuova civiltà industriale e trafficante creata dalla borghesia coll'aiuto del popolo, porta con sé una spesa maggiore di vite che per il passato. Tutta questa somma di azioni e di reazioni significa un consumo enorme di potenza, di forza e perciò di vita. L'accrescimento della vita vuole e conduce l'accrescimento della morte.
Lo scienziato che muore o divien folle nelle sue esperienze e nelle sue meditazioni, il grande capitano di affari che passa dalla vittoria alla disfatta, dalla ricchezza favolosa alla miseria sordida, gli eserciti dei lavoratori decimati dalle malattie e dalle sventure, le armate conquistatrici che devono vincere colonie, sedare ribellioni, proteggere gli sbocchi delle industrie e dei commerci, tutti questi uomini che devono consumarsi e morire perché la vita s'innalzi e s'intensifichi, tutti questi individui che devono spengersi e scomparire perché la loro nazione sia vittoriosa, perché la loro razza resti superiore, sono le vittime necessarie, gli olocausti inevitabili alla vita moderna, quale si mostra sulle terre e sui mari dei due mondi.
Di fronte ad essa le vite piccole, le vite caduche, effimere, limitate, anguste scompaiono e debbono scomparire. Rimpiangere i morti, indugiarsi nelle lacrimose effusioni dell'umanitarismo femmineo, arretrare dinanzi alle frasi comuni della vita sacrosanta sarebbe negare la grande vita che pulsa, s'accresce e s'infiamma intorno a noi. E la vita non è degna d'esser vissuta se non quando è piena ed intensa: sacrificare questa eroica intensità alle vite passeggiere sarebbe togliere al mondo il suo supremo valore.
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